C’ è un concetto che sembra essere dato per scontato da tutti, che permea libri e trasmissioni televisive di divulgazione, documentari e anche film di intrattenimento. È un concetto con una storia antica, che ormai è penetrato nell’immaginario pop e nella ricerca, nella filosofia e nella speculazione fantascientifica. Si tratta del favoleggiato, ma mai discusso, “equilibrio della natura”, in inglese balance of nature, una combinazione di parole che diamo quasi per scontata – cosa c’è di più equilibrato della natura, in fondo? – e non ci passa quasi mai per la testa il fatto che siamo invece davanti a un oggetto-idea magmatico e informe, un’ipotesi scientifica senza una definizione precisa.
Dire che la natura ha un suo equilibrio (e l’aggiunta è spesso “al di fuori dell’azione umana”), significa dire in buona sostanza che esiste uno stato monolitico verso cui tende ogni ecosistema, che una volta raggiunto garantisce che la dinamica tra specie e popolazioni in entrata e in uscita sia un bilancio a somma zero. Significa dire, insomma, che le popolazioni di animali e piante, se lasciate indisturbate, tendono tutte naturalmente a un certo punto, ideale, di equilibrio. Sappiamo invece che non è così: “l’equilibrio della natura” è anzi un’idea fuorviante, un abbaglio scientifico. Usato oggi soprattutto dai comunicatori, più che dai ricercatori, è una distorsione che ha comunque diverse conseguenze nefaste sul nostro rapporto con la natura, la conservazione, l’ecologia.
Ma andiamo con ordine. Le prime tracce di “equilibrio della natura” (concetto a volte declinato anche come “equilibrio ecologico”, ai giorni nostri) risalgono alla filosofia greca, in particolare ai presocratici. Un frammento attribuito ad Anassimandro parla della natura come un luogo “…da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità…”. D’altronde la scienza greca fu costruita sulla concezione della natura costante e armoniosa, tanto che i pitagorici nell’universo sentivano armonia musicale. Erodoto a sua volta, acuto osservatore, faceva notare che i predatori non riuscivano a mangiare tutte le lepri perché la provvidenza aveva creato ogni specie in modo da avere capacità riproduttive differenti, e quindi i predatori avevano meno figli delle specie di cui si nutrivano. I suoi racconti rappresentano uno dei primi esempi di ricerca di “prove biologiche” dell’equilibrio della natura.
Il concetto proseguì anche con altri filosofi che avevano un interesse naturale, come Aristotele o Lucrezio (che in realtà, essendo un atomista, aveva poco in simpatia un universo ordinato ed “equilibrato”). Ma il tutto rimase sempre piuttosto nebuloso e poco chiaro e, durante i secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano e il Medioevo, i filosofi ebbero altro da fare che osservare e teorizzare il funzionamento della natura vivente: al massimo si sforzavano di costruir su macerie e mantenersi vivi. Solo l’avvento della scienza naturale modernamente intesa, secoli dopo, spinse alla riflessione sulla natura e sulle dinamiche dei viventi visti come entità a sé stanti e non come epigoni di idee iperuraniche.
Equilibrio della natura è una combinazione di parole che diamo quasi per scontata – cosa c’è di più equilibrato della natura, in fondo?Siamo invece davanti a un’ipotesi scientifica senza una definizione precisa.
Dal diciassettesimo secolo, le scoperte seguite alle esplorazioni indussero ad applicare anche alle scienze naturali un rigore più tipico di altre discipline, come la fisica. Grandi menti si adoperarono per mettere ordine nel caos apparente dell’enorme varietà delle specie animali e vegetali, e il concetto di equilibrio naturale non scomparve mai del tutto. Anzi, ci cascò persino Darwin, che guardava tutto con intelletto aperto e brillante. Nel passo finale dell’Origine, dipinge una natura ricca e “piena”, nel senso di un gran numero di specie di piante e animali, ognuno dei quali occupa un suo posto particolare. Cita in altri passi anche Goethe, per cui “per largheggiare da una parte, la natura è costretta a economizzare dall’altra” e, nell’ultimo capitolo: “Il più piccolo vantaggio in alcuni individui – a una qualunque età o in una qualunque stagione – su quelli con cui entrano in concorrenza, o un migliore adattamento, per quanto in lieve misura, alle condizioni ambientali, faranno, nel corso del tempo, spostare l’equilibrio”.
Un caso paradigmatico di equilibrio naturale concepito da Darwin è il famoso esempio dei bombi, dei topi e del trifoglio. Il trifoglio è impollinato dai bombi, che se diminuissero troppo porterebbero all’estinzione della pianta. Ma i nidi dei bombi sono predati dai topi, che ne abbassano la popolazione. E hanno di conseguenza un effetto negativo sul trifoglio. A loro volta i topi sono vittime dei gatti, che se ne catturano molti aumentano la popolazione dei bombi, e del trifoglio. Scrive Darwin: “Perciò è credibile che la presenza di un gran numero di gatti (in originale feline animal) in una regione possa determinare, attraverso l’intervento prima sui topi e quindi sugli insetti, la frequenza di certi fiori in quella regione”. Da cui l’osservazione che le gattare inglesi influenzano l’estensione del trifoglio, del bestiame nutrito a trifoglio e infine dei marinai della flotta inglese, che di carne si nutrono.
La nascita dell’ecologia, di lì a pochi anni, partendo dalla definizione di E. H. Haeckel nel 1866, non cambiò di molto lo stato delle cose. I primi studi che possono essere definiti di ecologia, di Möbius e Forbes, vedevano gli ecosistemi esaminati come esempi di equilibrio della natura. Forbes per esempio raccontava di specie “tenute” nei loro limiti dalla natura da fattori come la predazione o altro. A loro volta le specie rispondevano inventandosi armi e controffensive che bilanciavano la minaccia dei predatori. Per questo, scriveva nel suo articolo del 1925 The lake as a microcosm (“Il lago come un microcosmo”, e il concetto di microcosmo è un’altra idea di Aristotele che ha influenzato il pensiero per millenni): “…eppure la vita non scompare nel lago, e neppure oscilla in misura considerevole, ma al contrario la piccola comunità qui racchiusa è prospera, come se il suo stato fosse uno di profonda e perpetua pace”.
Gli studiosi successivi – Clements, Shelford e Odum, tra gli altri – da metà del secolo scorso in poi, non misero mai in discussione il fatto che in natura le dinamiche ecologiche portassero a una situazione, se non stabile, almeno di equilibrio tra “forze” (e l’ecologia insegnata nelle università italiane, anche negli anni Settanta e Ottanta, non si discostava molto da questo approccio). Per esempio, ogni libro di ecologia porta il caso delle popolazioni di lince canadese (Lynx canadensis) e lepre scarpa da neve (Lepus americanus), che aumentano e diminuiscono secondo cicli (quasi) prevedibili. Quando ci sono tante lepri, le linci le catturano e le loro popolazione aumenta: se ci sono tante linci, catturano molte lepri e di conseguenza le lepri diminuiscono. Un esempio di equilibrio ecologico dinamico (oltre che di rapporto preda-predatore).
Dopo una lunga storia, che va da Anassimandro a Darwin, un ecologo inglese, Arthur George Tansley, fu il primo a contestare apertamente il concetto di equilibrio naturale.
Il concetto stesso di climax, una situazione in cui la comunità ecologica raggiungeva una posizione di equilibrio, con specie dominanti adattate alla situazione locale, è proprio il culmine dell’idea di equilibrio ecologico. Ma già a metà nel secolo scorso c’erano voci dissidenti, pur all’interno dell’ortodossia. Henry Gleason, un ecologo statunitense, per esempio riteneva che le comunità fossero più “individualistiche” e non esistessero specie dominanti, perché prevalevano quelle che per caso, o per contingenze locali, si trovavano meglio in quella situazione e in quell’ambiente. Il concetto classico di climax, quindi, non era più applicabile, se una comunità ecologica dipendeva da situazioni locali e dall’imponderabile fortuna di essere al posto giusto al momento giusto.
Le due impostazioni, di Clements e di Gleason, non erano del tutto incompatibili, anche se si faceva strada l’idea che l’equilibrio naturale e la pienezza della natura fossero due concetti piuttosto deboli. Un ecologo inglese, Arthur George Tansley (che fra le altre cose creò il concetto di ecosistema) si oppose a queste visioni dicendo chiaramente. Qualche anno più tardi gli fece eco il collega e amico Charles Elton: “L’equilibrio naturale non esiste, e forse non è mai esistito. I numeri degli animali selvatici variano costantemente in misura maggiore o minore, e le variazioni sono di solito irregolari come periodo e sempre irregolari in ampiezza”.
Questa critica avrebbe dovuto essere una specie di tomba del concetto di equilibrio naturale; e lo fu, per molti ecologi. Ma era forse un’idea troppo radicata nella mentalità occidentale (o in quella dell’uomo come specie?) per essere completamente spazzata via. E in effetti prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale ancora si parlava di equilibrio nelle popolazioni animali, e dei meccanismi che contribuivano a mantenere sotto controllo l’eccesso di “produzione” da parte di alcune specie. Altri ecologi ed evoluzionisti videro la possibilità di un controllo del numero di animali (o piante?) attraverso meccanismi comportamentali interni alla popolazione stessa, o con la selezione naturale. Le prime proposte furono rapidamente respinte, le seconde non così facilmente (forse qualsiasi concetto darwiniano è ancora troppo potente per poter essere espulso dal pensiero dei biologi in maniera indolore).
Con il tempo, però l’idea è stata lentamente e silenziosamente abbandonata. Oltre ai dubbi che risalgono a decenni fa, hanno contribuito a questo cambio di mentalità l’osservazione della natura (ovviamente) e lo sviluppo di discipline come la scienza del caos e lo studio dei fenomeni non lineari. Oggi sappiamo che bastano pochissime variazioni nelle condizioni iniziali per avere traiettorie del tutto imprevedibili nella vita di un ecosistema: il risultato (un po’ come aveva suggerito Steven J. Gould per l’evoluzione) non è mai del tutto identico se riavvolgiamo il nastro della vita, o quello della storia degli ecosistemi. Inoltre, proprio per l’andamento caotico delle popolazioni, è possibile che prima o poi un intero gruppo di animali o di piante che abita una foresta o una savana scompaia del tutto. Insomma, troppi sono i fattori esterni e interni che modificano gli stati e i parametri di un ecosistema per pensare che le oscillazioni delle popolazioni di specie siano smorzate da ‒ indeterminate ‒ forze naturali, in un delicato bilancio energetico, popolazionale e in ultima analisi ecologico.
Molti ecologi spingono per l’adozione di un punto di vista completamente diverso: accogliere il concetto di flusso, di cambiamento continuo, di imprevedibilità della traiettoria degli ecosistemi.
Come dice l’American Geological Institute nel libro Environmental science, understanding our changing earth del 2011: “È ancora più comune che il cambiamento ambientale sia in evoluzione piuttosto che in stato stazionario o oscillante; vale a dire che l’ambiente subisce un cambiamento graduale che non è equilibrato e non si muove avanti e indietro”. Molti ecologi, come il famoso teorico dell’ecologia Stuart Pimm (che nel 1991 scrisse un libro rivelatore, come Balance of nature? ‒ University of Chicago press), spingono per l’adozione di un punto di vista completamente diverso: accogliere non tanto il concetto di equilibrio quanto quello di flusso, di cambiamento continuo, di imprevedibilità della traiettoria degli ecosistemi. Un ottimo riassunto della storia del concetto si trova in molti articoli di storia della biologia (come lo spaventoso A History of the Ecological Sciences di Frank N. Egerton, rintracciabile su Bullettin of ecological society of America ‒ è arrivato alla 64a puntata), oltre che nell’ottimo The Balance of Nature: Ecology’s Enduring Myth di John Kricher, (Princeton University Press, 2009).
Quindi, se l’equilibrio naturale non è più uno strumento utile per lo studio degli ecosistemi, perché continua a persistere e a essere usato nella comunicazione? Qualche anno fa è uscito un libro dal titolo rivelatore: The Balance of Nature and Human Impact (curato da Klaus Rohde, Cambridge University Press, 2013), che si concentra proprio sul’allontanamento dall’equilibrio degli ecosistemi naturali da parte dell’uomo: non è tutto così semplice come sembra, però, e il volume spiega bene perché abbia quel titolo, tutt’altro che scorretto in questo caso. La natura, si legge nel libro, non è “in equilibrio”, cioè in una situazione classicamente intesa come quasi statica: in epoca geologica le specie sono apparse e scomparse con il cambiamento del clima e degli ecosistemi, e gli stessi ecosistemi sono dinamici e adattati ai cambiamenti.
Tuttavia, nel passato i cambiamenti climatici e ambientali si sono verificati su grandi scale temporali, tempi che permettevano effettivamente una qualche stabilità. Oggi no, l’impatto prodotto dall’uomo si sta verificando a una velocità molto più elevata, che gli ecosistemi non possono “inseguire”. In questo senso l’equilibrio della natura si sta oggi infrangendo. Ma anche così, usando il concetto in maniera non letterale e con molta cura, come fanno gli ecologi e gli ambientalisti più accorti, si può comunque cadere in qualche pericoloso errore. Kim Cuddington, che insegna all’Università di Waterloo, in Canada, in un articolo del 2011 (The “Balance of Nature” Metaphor and Equilibrium in Population Ecology, Biology and Philosophy) è arrivata a dire che a forza di parlare di “equilibrio della natura”, gli ecologi e persino i matematici che si occupano di ecologia di popolazione finiscono spesso per pensare – forse inconsciamente – alla natura come a una “forza benevola”, che risponde alle spinte e controspinte derivate dalle dinamiche esterne. Una forza quindi che si “equilibra”, anche nella trattazione matematica: “Oltre a influenzare il significato di equilibrio, la metafora ha anche caricato il termine di valori”, conclude Carrington, modificando così anche l’approccio matematico (Kricher, che nel suo libro fa una analisi simile sull’abuso della terminologia, è invece più positivo, nelle conclusioni: scrive che secondo lui tutto sommato “gli ecologi hanno compreso tacitamente che la [frase] è in gran parte metaforica”).
A forza di parlare di “equilibrio della natura”, gli ecologi e persino i matematici che si occupano di ecologia finiscono spesso per pensare, erroneamente, alla natura come a una “forza benevola”.
A metà strada tra ecologi e pubblico, gli esperti di conservazione della natura non si sono ancora completamente staccati dall’utilizzo dell’equilibrio come concetto base per raccontare le dinamiche naturali e gli scambi uomo-natura. D’altra parte i comunicatori scientifici fanno spesso, in un modo o nell’altro, uso di metafore e semplificazioni per entrare negli schemi mentali del pubblico (o delle amministrazioni che chiedono loro qualche consulenza). Ma al di là degli usi allegorici “utilitaristici” e quindi tutto sommato leciti, viene il dubbio che molti giornalisti e comunicatori credano pedissequamente al concetto aristotelico di “equilibrio naturale”, alla retorica della natura armoniosa e stabile quando inviolata dalla presenza umana.
Comunque sia, è evidente che quello dell’equilibrio della natura è uno spettro concettuale che continua ad aggirarsi nella mente umana. La cosa potrebbe essere del tutto ininfluente, se non ci fossero anche conseguenze nella politica, nella nostra concezione del mondo e nelle condotte di tutti i giorni. C’è infatti un’evidente contraddizione in questo modo di pensare: riteniamo e diciamo che la natura, lasciata a se stessa, torna all’equilibrio immutabile e secolare con dinamiche affinate in secoli di evoluzione. Ma allo stesso tempo continuiamo a dire che la natura stessa è fragile e facilmente allontanabile dalla sua condizione ideale. Il risultato di questa contraddizione è che ogni azione volta a modificare in un modo o nell’altro lo stato di un ecosistema da parte dell’uomo passa come negativa. Il che è un errore.
Anche se sappiamo che in effetti molte azioni umane sulla natura hanno un impatto dannoso, quando non devastante – come la deforestazione o i recenti incendi in Australia (causati più o meno direttamente da azioni umane) –, esiste anche qualche esempio di intervento umano con intenzioni e risultati buoni: per esempio la reintroduzione dei lupi nell’ecosistema Yellowstone. I lupi reimmessi nel parco americano e nelle sue adiacenze hanno riportato l’ambiente a una situazione più simile a quella che precedette la colonizzazione, con un aumento del numero di specie e delle loro popolazioni: fino alla crescita della biodiversità complessiva. Certamente, una sola specie in un ecosistema così enorme non può essere un deus ex machina dell’intera modifica ambientale, e analisi successive hanno in parte smentito questo affresco da “richiamo della foresta”.
Resta il fatto che gli ambienti naturali di tutta la Terra sono ormai così profondamente modificati dall’azione umana che il loro completo ritorno a uno stato primigenio, senza interventi della nostra specie, risulta quasi impossibile. Su scala immensamente più ampia, anche l’approccio al problema del cambiamento climatico può essere visto come un’alternativa tra il “fare o lasciar fare”. Nel primo caso si contrasta l’azione umana sul clima (che ricordiamo dura da centinaia di anni) con robusti – e per ora ancora poco testati – interventi di geoingegneria. Nel secondo ci si batte per fermare l’immissione di gas climalteranti in atmosfera, sperando che basti e la situazione si riequilibri. Anche i più scettici sono ormai convinti che senza un’attenta azione di geoingegneria la natura potrebbe non riuscire a rispondere alle pregresse spinte umane e tornare a uno stato (qualunque esso sia) compatibile con la vita della nostra specie.
Il problema con l’abuso di questo termine contraddittorio è che ogni azione umana volta a modificare, in un modo o nell’altro, lo stato di un ecosistema è sempre negativa, quando invece, con la crisi climatica, sarà sempre più necessaria.
Anche la biologia della conservazione e la politica ambientale quindi dovrebbero allontanarsi da un approccio che vede la natura sempre in grado di fare da sola, per ritornare a stadi antichi e più felici. Stadi che, in questo stato di cose, sono spesso impossibili: prima di tutto perché le azioni umane ‒ esemplificate dalla definizione dell’epoca in cui viviamo come Antropocene, l’era dell’uomo ‒ sono così pervasive e onnipresenti, sia nel tempo sia nello spazio, da rendere quasi inesistenti zone “incontaminate” della Terra. Poi perché anche i biomi più vasti e in apparenza poco modificati dall’uomo non sono isolati dal resto del pianeta, e subiscono le influenze degli ambienti vicini e lontani. Basti pensare ancora alle emissioni di CO2 nei paesi industrializzati che modificano il bilancio idrico nelle foreste tropicali.
Come scrivono Corinne Zimmerman e Kim Cuddington in un articolo pubblicato su Public Understanding of Science nel 2007, la metafora dell’equilibrio della natura è Ambiguous, circular and polysemous (ambigua, circolare e polisemica). Ognuno ci capisce quello che vuole, e vi introduce i significati più graditi. Alcuni ecologi, certo, ma soprattutto il pubblico e i politici. Sarebbe, in buona sostanza, molto meglio farne a meno e, contemporaneamente, lasciare andare anche altre figure dallo stesso sapore retorico: “madre natura”, la “pienezza della vita”, il “microcosmo cui corrisponde un macrocosmo”. Sono costruzioni mentali profondamente insite nel nostro cervello “primitivo”, che potrebbero però impedirci di agire quand’è il momento. E con il pianeta in queste condizioni, rinunciare a metafore che fanno da ostacolo è forse il primo passo da fare.